Il colonialismo: dalle origini alle conquiste fasciste

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placeI periodi
Italia Libia Africa orientale Italia liberale 1912 fine '800 (Eritrea e Somalia) Italia fascista riconquista (1922-1932) 1935-1936 (Etiopia) -
placeLe motivazioni del colonialismo italiano
PROPAGANDA: l'Italia voleva apparire come una grande nazione, al pari di Inghilterra, Francia (le maggiori potenze colonizzatrici) e Germania.
ASPETTI SOCIALI: in Italia --> disoccupazione e molti braccianti-agricoltori non possedevano terreni da coltivare --> scioperi e proteste in piazza. Le conquiste africane potevano dare spazio a questa parte di italiani.
ASPETTI ECONOMICI: sia Libia che Africa orientale sono terreni poveri per quanto riguarda l'agricoltura; in Libia c'è petrolio, ma all'inizio non se ne conosceva l'esistenza; in seguito non si ebbero capacità tecniche e situazione favorevole (II Guerra Mondiale) per lo sfruttamento.
reportL'ambiente dell'esercito e delle industrie militari collegate (fornimento di armi, vestiario, automezzi e cibo) trovarono comunque vantaggi da queste spedizioni e furono sempre favorevoli ad espansionismo ed imperialismo.
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placeAspetti politici
La conquista della Libia ebbe degli effetti sullo scoppio della I Guerra Mondiale --> mise in risalto la debolezza dell'Impero Ottomano.
Le conquiste in Africa orientale portarono a una rivalità tra Italia e Inghilterra --> gli Inglesi erano i più grandi colonizzatori del mondo e avevano traffici intensi attraverso il Canale di Suez in direzione della loro più grande colonia, l'India. La presenza italiana in Africa orientale minacciava la loro navigazione. Gli Italiani speravano di ottenere qualche vantaggio nel possedere territori in quella zona.
Traffici e interessi inglesi nella zona dell'Africa orientale, conosciuta anche con il nome di Corno d'Africa.
Libia
Il Fascismo la chiamò enfaticamente la "Quarta sponda", come a dire che il mar Mediterraneo era tutto italiano e questa terra era il nostro naturale confine. Non fu una colonizzazione facile, sempre incerto il dominio fino al 1931-1932, poi, durante la Seconda Guerra Mondiale, terreno di scontri e sconfitte per le truppe fasciste e naziste contrapposte agli Alleati.
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placeL'arco dei Fileni
Racconta Sallustio che «nei tempi in cui Cartagine dominava sulla maggior parte dell’Africa, anche Cirene era forte e potente. Le due città erano divise da un territorio sabbioso e uniforme. Non c’era né fiume né monte che segnasse il confine e a causa di tale circostanza fra loro vi fu una guerra feroce e incessante». Stanchi di logorarsi a vicenda, cartaginesi e cirenei decidono di fissare di comune accordo il confine affidandosi all’esito di una gara fra quattro loro campioni: sarebbero partiti alla stessa ora, due da Cirene e due da Cartagine e il punto di incontro avrebbe segnato la frontiera.
Senonché i due cirenesi corrono di meno e, racconta ancora Sallustio, «quando si accorgono di essere rimasti piuttosto indietro, temendo di essere puniti in patria per la cattiva riuscita dell’impresa, accusano i cartaginesi di essere partiti dalla città prima del tempo, confondono i termini dell’accordo, insomma sono disposti a tutto tranne che a tornarsene vinti». Ma i due cartaginesi, i fratelli Fileni, difendono la conquista fatta per la loro città e sono disposti a lasciarsi seppellire vivi nel luogo che hanno raggiunto.
Un altare edificato in loro memoria segnò da allora la linea di confine fra il territorio fenicio e quello greco.
La leggenda venne utilizzata da Italo Balbo, il quale, nel 1937, da governatore fascista della Libia, fece edificare un monumentale Arco dei Fileni al confine fra la Tripolitania e la Cirenaica. L’arco venne fatto abbattere nel 1973 da Gheddafi, che voleva cancellare i simboli del colonialismo italiano. Ma, anche se non c’è più un monumento che segna il confine, questa storia serve a ricordare che, quando parliamo di Libia, parliamo in realtà di un territorio composito che, come tanti altri in condizioni analoghe, è stato unificato, sulla carta, solo dal colonialismo europeo.
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placeLibia: un'invenzione italiana
Tre province molto diverse: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan
Molti non sanno che la Libia non è uno Stato al pari di molti altri dell'Europa. In realtà la Libia è più un agglomerato di tribù e culture differenti fra loro che uno Stato composto da una sola nazionalità: quest'ultimo, semmai, era l'obiettivo che si poneva di raggiungere Gheddafi, quando prese il potere nel 1969 con una rivoluzione.
Storicamente la Libia nasce come "esperimento politico" del colonialismo italiano dopo che le tre province di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan erano state strappate al dominio ottomano. Tre province, vissute ciascuna per conto proprio sotto il dominio turco, vennero improvvisamente aggregate in una sola colonia. Di queste tre province, fu la Cirenaica quella che diede effettivamente del filo da torcere al colonialismo italiano, al punto che Mussolini rischiò quasi di mandare in bancarotta lo Stato italiano a suon di operazioni militari, reticolati nel deserto e quant'altro. Venne anche usata l'iprite, in violazione degli Accordi di Ginevra che la stessa Italia aveva sottoscritto anni prima, e si calcola che almeno il 10% della popolazione libica d'allora sia stata trucidata.
In effetti la Libia è una "terra di mezzo", a metà strada fra il Maghreb (composto da Tunisia, Algeria, Marocco) e l'Egitto. Storicamente e culturalmente, la Tripolitania è una propaggine della Tunisia, il Fezzan dell'Algeria e la Cirenaica dell'Egitto. Sono quindi due mondi diversi che gli italiani vollero fondere in uno soltanto.
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placeLa conquista del 1911-1912 e le prime deportazioni
L’invasione della Libia avvenne alla fine del 1911 e si concluse nel 1912.
Essa è ricordata con il nome di "guerra italo- turca" perché le province della Tripolitania, della Cirenaica e il Fezzan erano in mano all’Impero ottomano. Come abbiamo sopra detto, la Libia non esisteva come Stato, era invece un insieme di regioni assai diverse tra loro per cultura e storia.
Per gli italiani fu una spedizione caratterizzata dalla spiacevole sorpresa di vedere che i libici solidarizzavano, al momento dello sbarco, con le truppe turche di guarnigione ed anzi costituivano i reparti più aggressivi. Giolitti, male informato, era persuaso che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica attendessero l'arrivo degli italiani con autentica gioia. Deluso ed irritato, inviava ai generali quei nefasti telegrammi con i quali ordinava stragi e deportazioni. Non soltanto gli italiani avevano sottostimato il patriottismo arabo, ma erano convinti che un «popolo di beduini» non sarebbe stato in grado di opporre una valida resistenza. Dovevano amaramente ricredersi.
Già il 23 ottobre 1911 subivano, a Sciara Sciat, una pesante sconfitta con un bilancio di 500 soldati uccisi.
La rappresaglia italiana fu violentissima: 4000 morti arabi, con tanto di esibizione di quindici morti nella Piazza del Pane di Tripoli, perché servisse da esempio. Altri 4000 civili nemici furono deportati in Italia: il numero esatto, comunque, è difficile da decifrare poiché non venivano identificati al momento dell’imbarco. Furono presi a caso per le strade di Tripoli, stivati a forza nelle navi, senza alcuna prova di colpevolezza Tra loro, donne, bambini e ragazzi, vecchi e mendicanti. Nelle nostre carceri morirono di fame, malattia e freddo. La destinazione fu isole Tremiti o isola di Ustica. Nel 1915, durante la «grande rivolta araba», gli italiani avrebbero perso tutti i territori conquistati ed avrebbero conservato soltanto alcuni porti, dopo una frettolosa e disperate ritirata che era costata diecimila morti.
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placeI metodi della "riconquista fascista" (1922-1932)
Con l’avvento al potere del Fascismo un obiettivo dichiarato fu quello di "riconquistare la Libia", in quanto dal 1915 (Grande rivolta araba) il possesso italiano si limitava ad alcuni porti sulla costa, mentre all’interno la guerriglia non ci aveva permesso di prendere pieno possesso della regione.
Uno dei leader della guerriglia era Omar Al Mukthar. Obiettivo delle operazioni non fu solo la "pacificazione del paese", cioè la definitiva sottomissione delle tribù locali. Si voleva altresì scacciare le popolazioni dalle zone costiere onde far spazio ad insediamenti di coloni italiani». A comandare le operazioni militari in Libia vennero dunque chiamati il generale Graziani e il generale Badoglio. Fu proprio Graziani ad istituire i «tribunali volanti» con diritto di morte ed esecuzione immediata della sentenza per reati quali il possesso di arma da fuoco o l’appoggio e l’aiuto dato ai ribelli; fu di Badoglio, invece, la proposta di utilizzare le bombe e gli aggressivi chimici per stroncare la resistenza libica.La Resistenza fu alimentata principalmente dalla cosiddetta «Senussia», una organizzazione religiosa mussulmana che governava le tribù seminomadi della Cirenaica. All'interno del paese libico era soprattutto la Cirenaica, come si diceva, a dare problemi agli occupanti italiani, in quanto territorio attraversato da una ribellione diffusa e difficile da sconfiggere perché appoggiata dalla popolazione. Il governo italiano optò allora per un'azione radicale, da attuarsi per mezzo di trasferimenti coatti di popolazione.
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placeLa deportazione dei libici
A partire dal giugno 1930 si decise la creazione di campi di concentramento in cui «ospitare» le popolazioni della Cirenaica che si erano dimostrate più vicine alla resistenza. Lo scopo era quello di rompere ogni legame tra ribelli e civili ma anche di rompere ogni possibilità di sostentamento delle comunità. Emblematica a riguardo una frase dello stesso Badoglio:Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.
Venne quindi data esecuzione al piano: si procedette conseguentemente all'esproprio dei terreni, alla confisca dei beni di ribelli, all'impiego dei gas chimici (in violazione del trattato internazionale del 1925 di Ginevra, che ne proibiva l'uso), alla pratica del lavoro forzato ed alla deportazione di circa centomila persone in quindici campi di concentramento. All'interno di questi campi le condizioni risultarono estremamente precarie per la mancanza di cibo e di risorse; ci furono epidemie di tifo petecchiale a cui non si porse rimedio per l'assoluta mancanza di medici e di materiale sanitario. I deportati vennero utilizzati come forza lavoro e forzatamente impiegati soprattutto nella realizzazione di opere pubbliche (soprattutto strade) che andava di pari passo con l'occupazione.Si calcola che degli oltre 100.000 civili libici trasferiti nei campi, solo 60.000 sopravvissero. I restanti 40.000 erano morti durante le marce di trasferimento, per le pessime condizioni sanitarie nei campi, per la fatica, per il cibo insufficiente e spesso avariato, per le epidemie di tifo petecchiale, dissenteria, per le violenze compiute dai guardiani, per le esecuzioni sommarie di chi tentava la fuga e anche per i mitragliamenti dell'aviazione italiana.
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placeLa conquista dell'oasi di Cufra
Vediamo ora come fu catturato Omar Al Muktar, la cui resistenza non si piegava.
Furono allora dati alle fiamme alcuni villaggi e attaccata l’oasi di Cufra, base di molti ribelli. A Cufra furono usati i primi aerei in assoluto nel deserto per i bombardamenti dell'oasi, e nell'occasione furono impiegate anche le armi chimiche, i pozzi d'acqua potabile furono avvelenati o chiusi col cemento, l'agricoltura senussita fu devastata e migliaia di Libici furono deportati in campi di concentramento. Graziani inoltre fece costruire una barriera di 270 chilometri di filo spinato tra la costa e l'oasi per impedire che arrivassero rifornimenti e aiuti dall’Egitto. Nell'estate del 1931, a ʿOmar al-Mukhtār erano rimasti solo 700 uomini. Durante la conquista dell’oasi di Cufra furono commesse atrocità e torture impressionanti. -
placeLa morte di Omar Al Mukthar
Omar Al Mukthar, avvistato dall'aviazione italiana, ordinò ai suoi uomini di dividersi per sfuggire alla cattura, ma fu ferito al braccio e gli fu ucciso il cavallo; catturato, fu trasportato a Bengasi dove fu subito istruito il processo. Mussolini telegrafò ordinando che la sentenza fosse sicuramente quella della "pena di morte"; il processo durò assai poco; l’avvocato militare italiano di Omar fu arrestato perché incolpato di "far troppo bene" il suo lavoro. Il vecchio guerrigliero (aveva settant’anni) fu impiccato davanti a 20.000 libici deportati nei campi di concentramento, obbligati ad assistere all’esecuzione; erano passati appena quattro giorni dalla sua cattura.
Con l’uccisione di Omar Al Mukthar e la deportazione dei 100.000 libici, di cui abbiamo parlato prima, la "pacificazione della Libia" poteva dirsi conclusa: iniziava il periodo di dominio fascista, che durò sino al 1942 quando, con le sconfitte militari della II guerra mondiale, l’Italia abbandonò definitivamente l’Africa.
Africa orientale
L’Italia si dedica alle guerre coloniali in ritardo rispetto agli altri paesi europei (soprattutto Inghilterra e Francia) perché fino al 1870 era stata impegnata nelle guerre per realizzare l’unità d’Italia. Quando volgiamo la nostra attenzione ai paesi africani "resta ben poco" e le terre più ricche sono già state accaparrate.


L'impero coloniale italiano dal 1936 al 1941
By Jose Antonio [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html )], from Wikimedia Commons
Cronologia di un Impero
Nel 1882 la compagnia genovese di navigazione Rubattino acquista i diritti di navigazione del porto di Assab per lo scalo delle proprie merci (sulle coste di quella che oggi è l'Eritrea).
Poiche però il porto non si dimostra molto redditizio, la compagnia ne decide la vendita; si tratta di poche capanne in una zona assai umida.
Il porto viene comprato dal Regno d'Italia che così acquisisce il suo primo territorio coloniale.
Nel 1885 gli Italiani conquistano un altro porto, sempre sulle coste eritree, il porto di MASSAUA; il porto era prima in mano agli Egiziani che lo avevano da poco abbandonato; gli Inglesi, che sono molto influenti nella zona, ci lasciano il permesso di agire.
L’entroterra di queste zone costiere è governato da signori locali, chiamati RAS, mentre il re di tutta la zona etiope prende il nome di NEGUS.
Nel 1887 c’è il primo imprevisto; dalle zone costiere cerchiamo di entrare verso il centro della regione ma i nostri fortini, presso DOGALI, vengono assaltati e noi veniamo sonoramente sconfitti con la morte di ben 500 uomini: fu uno sconcerto e un’onta terribile (per la prima volta un esercito europeo veniva sconfitto da un esercito africano di popoli considerati sottosviluppati).
Nella foto: Monumento commemorativo a Dogali con il nome dei 500 morti.
Nel 1889 si viene a firmare un trattato di pace con l’imperatore della zona, Menelik; il trattato si chiama trattato di UCCIALLI: è una nuova furbizia italiana; esso stabilisce i confini tra la colonia italiana dell’Eritrea e l’Etiopia (Eritrea: dalla costa fino all’altopiano nell’interno; Etiopia: dall’altipiano verso l’interno) e viene scritto come al solito nelle due lingue, ma nel trattato scritto in italiano c’è qualcosa di diverso rispetto all’altra versione: si parla di un protettorato dell’Italia sull’Etiopia, che Menelik non voleva assolutamente!
Nel 1890 gli italiani si assicurano alcune terre ed un protettorato nella zona costiera più a sud: la zona che diventerà la colonia della Somalia.
reportPROTETTORATO: con questo termine si intende un accordo tra due Stati per cui uno diventa il protettore dell’altro. Il protettore ha l’obbligo di aiutare e difendere l’altro Stato a livello internazionale ma ha anche diritto di avere ingerenza sulla sua politica estera ed anche interna.
Nel 1895 gli Italiani partendo dall’Eritrea, superano l’altopiano e si spingono verso l’interno dell’Etiopia, conquistando temporaneamente ADIGRAT, MACALLE’ e soprattutto l’importante città di ADUA (non sono comunque terre fertili, servono più che altro per aumentare la nostra fame di gloria!).
Nel 1896 arriva la controffensiva degli Etiopi che avanzano lentamente, anche per permetterci la fuga; comunque nella battaglia di Adua cadono più italiani che in tutte le guerre di indipendenza messe assieme (furono 1600 morti)
Le guerre coloniali ottocentesche si concludono con questa guerra; la situazione è una situazione di stallo: abbiamo conquistato le colonie di Eritrea e di Somalia, che sono territori assai poveri ed inospitali (anche se hanno un piccolo interesse strategico per il controllo del Canale di Suez); abbiamo però conosciuto ben due grandi e gravi sconfitte, una Dogali e l’altra ad Adua; l’Etiopia non è conquistata anche se è nei nostri sogni; bisogna trattare con il re Menelik e cercare una situazione di convivenza.
Nel 1935 vengono chiamati alle armi i primi contingenti della classe 1911 e si mobilitano sempre più truppe da inviare in Africa.
La propaganda in Italia è massiccia: radio, giornali e cinema non parlano d'altro che della imminente guerra. Per racimolare soldi si arriva addirittura ad istituire la giornata "delle fedi nuziali alla Patria"; anche Pirandello donerà la medaglia del suo premio Nobel.
Il piano prevede di attaccare gli Etiopi sia partendo dall’Eritrea a nord, sia partendo da sud, cioè dalla Somalia.
La guerra è vinta dagli italiani che in alcuni mesi conquisteranno nuovamente ADUA, la città santa di AXUM e penetreranno profondamente in Etiopia.
Questa volta, diversamente dall’Ottocento, quando il nostro esercito era mal attrezzato ed organizzato, gli italiani sono "ben preparati"; poiché però la spedizione non procede con la velocità desiderata a causa della resistenza degli Etiopi si useranno tutte le armi più moderne, sia quelle lecite che quelle illecite e proibite dai trattati internazionali.
I generali italiani decidono di iniziare la guerra chimica, non solo per fermare l'avanzata delle truppe etiopiche, ma anche per terrorizzare le popolazioni. La riconquista costa la vita, tra gli italiani, a 63 ufficiali e 900 soldati.
Gli aerei sono l’arma da guerra privilegiata poiché bombardano dall’alto, senza far distinzione fra obiettivi militari e civili. A centinaia muoiono donne e bambini. E così va smentendosi il motto "italiani brava gente".
La controffensiva etiopica inizia ai primi di dicembre del 1935- gennaio 1936 e per risposta dagli italiani parte la guerra chimica, mediante irrorazione di gas tossici sulla popolazione inerme, sistematicamente, villaggio dopo villaggio. Guerra batteriologica si ordina da Roma, pur di vincere. Saranno gas soffocanti, vescicanti, il benzolo, l’iprite a piegare l’Etiopia, certamente non le armi convenzionali. Una pioggia mortale cade su tutto e tutti dagli aerei senza rivali nel cielo. E’ un genocidio sul quale a lungo si è taciuto vergognosamente!
La Società delle Nazioni condanna l’Italia per la sua aggressione e le impone un embargo economico, che per altro non avrà grandi effetti perché la Germania, nostra alleata, non lo rispetta e così tante altre nazioni per motivi commerciali di vantaggio economico!
La mattina di sabato 20 febbraio 1937, una piccola notizia sui giornali italiani titolava "Il viceré d'Etiopia Graziani lievemente ferito in un vile attentato".
Era l'ordine del MINCULPOP, (Ministero della Cultura Popolare Fascista): minimizzare a tutti i costi. In realtà, nell'atrio del palazzo imperiale di Adis Abeba il maresciallo Rodolfo Graziani si trovava in fin di vita, con 350 schegge di bomba nella schiena, nella testa e nelle gambe, cinque persone erano morte e 60 ferite dopo il lancio di nove bombe a mano. Ovvia la censura imposta dal regime di Mussolini. Anche perché l'attentato, organizzato a Londra dal negus Haillè Selassiè in esilio, aveva lo scopo di uccidere Graziani e gli altri ufficiali italiani per punirli dell'uso sistematico di gas e armi chimiche contro la popolazione (in violazione della Convenzione di Ginevra del 1925). Già poche ore dopo l'attentato colonne di soldati italiani mettevano a ferro e fuoco la capitale Adis Abeba; bande armate di fascisti e ascari eritrei rastrellavano i quartieri poveri, bruciavano capanne e chiese, lanciavano bombe a mano. La mattina successiva per le strade si contavano 300 morti, che vennero lasciti lì per tre giorni come ammonimento. Non era che l'inizio. Diversi storici hanno documentato la repressione che è seguita ma è difficile stilare un numero di morti definitivo; a seconda delle fonti consultate si va da un minimo di 1.500 morti ad un massimo di 30.000.
Nel monastero di Debra Libanos, dove erano stati addestrati gli attentatori, il 29 maggio 1937, tre mesi dopo l’attentato, furono uccisi tutti i monaci copti; le vittime furono oltre 1.500. I loro resti sono ancora oggi in una grotta sotterranea lungo il Nilo Azzurro, chiamata Zega Weden.
Da rimarcare come nessuna rappresaglia contro civili può essere minimamente giustificata e d’altronde le leggi internazionali le vietano e sanzionano, ma in questo caso vi fu addirittura una colpa ulteriore in quanto la vendetta non fu neppure dettata da una reazione criminale a caldo; le vendetta fu cinicamente progettata a tavolino con lavoro di spionaggio e fredda predeterminazione: un crimine di guerra per cui, però, nessun ufficiale o militare italiano ebbe mai a pagare.
L’impero coloniale italiano nel Corno d’Africa, comunque, non durerà a lungo perché durante la seconda guerra mondiale, gli Inglesi riconquisteranno la zona (1941 battaglia di Amba Alagi), scacciando gli Italiani e rimettendo sul trono Haille’ Selassie’ che, intanto, se ne era andato in esilio proprio in Inghilterra. Gli inglesi attaccheranno sia da nord (Sudan) che da sud (Kenya). Gli italiani, che sono impegnati su altri fronti europei, ormai sono mal equipaggiati e non riescono a difender le frontiere.
Questa operazione si collega con le vicende più generali delle guerre africane nella zona del Nord Africa, che vedono coinvolti da una parte Italiani e Tedeschi, dall’altra gli Inglesi e, in un secondo tempo, anche gli Americani (operazione Torch).
Per reagire alle sanzioni economiche decise dalla Società Delle Nazioni nei nostri confronti si diede vita a diverse iniziative economiche volte a superare le difficoltà.
Tra queste vi fu, appunto, la manifestazione denominata Oro alla Patria: questa consistette nel dono volontario, da parte di tutte le famiglie italiane, di alcuni oggetti in oro in modo da permettere alla nazione, con la collaborazione comune, di superare le difficoltà relative alle sanzioni.
All'interno della campagna Oro alla Patria, avvenne anche la Giornata della fede: la giornata riscosse un grande successo e gli italiani offrirono alla Nazione le proprie fedi nuziali, raccogliendone milioni ed un quantitativo totale di 37 tonnellate d'oro.
La cerimonia avvenne all'Altare della Patria a Roma e si espresse come uno dei momenti di massimo consenso degli italiani nei confronti del Fascismo.






Razzismo coloniale e cultura italiana
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placeLa canzone al servizio del colonialismo
Una delle canzoni più famose in epoca fascista fu "Faccetta nera".
La storia di questa canzone è peraltro assai particolare.
All’inizio la canzone fu tollerata e anzi pubblicizzata perché, a leggerne il testo, sembra voler raccontare e glorificare la colonizzazione di noi Italiani che in Africa abbiamo una missione da adempiere: portare la civiltà e liberare le donne africane dalla schiavitù.
Nella canzone, infatti, si parla di una bella ragazza etiope ("abissina" è un sinonimo) che, essendo schiava, sarà liberata dagli italiani e portata a Roma, dove sarà ancora una volta schiava, ma schiava d’amore.
La canzone, come si diceva, all’inizio ebbe un buon successo perché "giustificava" la spedizione coloniale italiana come un fatto di bontà e di altruismo ma, in un secondo tempo, essa non fu più ben vista dal Duce in quanto alludeva ad un rapporto amoroso tra un italiano e una ragazza africana; se ancora nel 1935 questa impostazione poteva andare bene, con il varo delle leggi razziali diventava impossibile accettare l’idea di un rapporto tra uomo bianco e donna nera e quindi la canzone fu censurata. -
placeLeggi razziali e una rivista
In Italia le leggi razziali contro gli ebrei e altre "razze inferiori" furono promulgate nel 1938, seguendo con tre anni di ritardo quanto era stato fatto nella Germania nazista.
A partire da questa data nacquero anche diverse riviste che cercavano di divulgare le idee razziste tra la popolazione; la più diffusa fu "La difesa della razza". Questa rivista fu stampata con cadenza quindicinale dal 1938 al 1943, per un totale di 118 numeri.
Scuole superiori e Università si diedero il compito di diffondere la rivista tra studenti e alunni, il battage pubblicitario fu fortissimo.
La difesa della razza contribuì a creare (o a consolidare) un clima di intensa diffidenza e di avversione nei confronti degli ebrei (ma anche degli africani, degli zingari, dei meticci, dei malati di mente, e di tutti coloro che venivano presentati come una minaccia per la presunta purezza della razza italiana), senza il quale il regime non avrebbe potuto agire indisturbato. Attraverso la ripetizione martellante di stereotipi razzisti, spacciati di autorevolezza scientifica, i 118 numeri de la difesa della razza fornirono, se non altro, un pretesto a coloro che, tra il 1938 e il 1943, scelsero di non vedere, o di non preoccuparsi di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi contro ebrei e minoranze.
I principi e la politica del razzismo fascista furono in gran parte dedicati alle tematiche antisemite, svolte spesso con toni di accesa violenza.
Verifiche
editTest: LibiaeditTest: Cronologia Africa orientale
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